Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un notevole progresso nella tecnologia e nell’automazione, con generazioni di robot “intelligenti”, oltre che efficienti, presenti in molti ambiti della nostra vita. Fatto che ha portato ricercatori e scienziati a interrogarsi sulle interazioni inedite che possono instaurarsi tra uomo e macchina. Soprattutto in Paesi ad alto tasso di invecchiamento della popolazione come il Giappone, che da tempo sta cercando di ovviare al mancato ricambio generazionale e alla carenza nelle professioni sanitarie e di cura ricorrendo a un vasto esperimento di automazione del welfare.
Impariamo dal Giappone: i robot non salveranno il welfare
n un articolo pubblicato sulla MIT Technology Review nel gennaio scorso, il ricercatore dell’Alan Turing Institute, James Wright osservava che gli esperimenti sul welfare digitale e robotizzato portati avanti da questo Stato-pioniere hanno dato più problemi, che soluzioni. Contrariamente alle aspettative del governo nipponico che, nel 2018, aveva stanziato oltre 300 milioni di dollari per finanziare la ricerca e lo sviluppo di questi dispositivi, si è scoperto che i robot per l’assistenza non contribuiscono a ottimizzare il lavoro umano, né lo possono sostituire, né permettono di ridurre la spesa sanitaria.
Al contrario, i dispositivi automatici, anche quando guidati da Intelligenza Artificiale, si rivelano più costosi delle aspettative. Richiedendo, inoltre, ulteriore lavoro umano per occuparsi di loro. Per Wright, i robot da soli non salveranno il welfare giapponese dalla crisi dell’assistenza.
A maggior ragione non potranno salvare il nostro sistema di welfare. Al contrario, come ha sottolineato Paula Taufer nel suo intervento sul Trentino del 23 maggio scorso, i tentativi di implementare l’assistenza robotizzata indicano che serve altro.
Relazione vs. funzione
I robot possono essere funzionali rispetto a compiti da eseguire, ma se diventano surrogati delle relazioni rischiamo di produrre un inesorabile effetto domino che genera problemi su problemi. L’uso dei robot, se non adeguatamente mediato, rischia infatti di preludere a una riconfigurazione dell’assistenza che sminuisce e svaluta il lavoro di cura e riduce le opportunità di interazione sociale umana e di costruzione di relazioni. Per questo, è importante guardare al di là di certe semplificazioni tecnologiche per capire come incrementare, anziché che ridurre i tempi, gli spazi, le pratiche delle relazioni umane. Anche attraverso la tecnologia, ma a certe condizioni. Taufer, nel suo intervento, parla di “relazioni 4.0” e di una necessaria formazione all’uso dei robot in sanità attraverso skills e competenze relazionali. Noi aggiungiamo un passaggio in più e parliamo della necessità di aprire il confronto su un terreno diverso, che chiamiamo Relazionésimo.
Una nuova economia di cura
Relazionésimo è uno spazio nuovo, di riflessione, valorizzazione, confronto con un pensiero predittivo, composto e complesso dove la relazione viene considerata il valore primario di una nuova economia. Un’economia di cura. Come dice la parola stessa, che nel suo etimo (oikos nomos) rimanda alla presa in carico di questo spazio comune, è sulle relazioni che dovremmo confrontarci, oltre che formarci, prima di dare deleghe in bianco a soluzioni tecnologiche che, come mostra il caso-Giappone, se non adeguatamente guidate rischiano di tramutarsi in rapide disillusioni.
Tanto più quando in gioco ci sono le vite delle generazioni. Le più anziane, come le più giovani. Le relazioni sono la nostra ricchezza ed è per questo che più che di tecnici di robotica, per capire e gestire il delicato passaggio che ci aspetta nei prossimi anni avremmo bisogno – ci si passi il termine – di “tecnici” delle relazioni. Competenti, empatici. Ma soprattutto: umani.
Questo articolo è apparso il 9 giugno sul quotidiano Il Nuovo Trentino